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20 aprile 2007
Comencini: regista di consumo o specchio fedele della società italiana?

di Franco Cicero

«Io non sono un artista: mi considero un buon artigiano e non è detto che il mio cinema non raggiunga per questo l’artisticità del risultato». È stato lo stesso Luigi Comencini a sintetizzare nel miglior modo possibile la sua straordinaria carriera che con 50 titoli lo ha reso tra i registi più popolari e amati d’Italia.
Da tempo costretto all’inattività da una lunga malattia – la sua ultima regia risale al 1992, il remake di “Marcellino pane e vino” – Luigi Comencini è morto nella sua casa romana, assistito dalle figlie, Cristina e Francesca, entrambe registe, e Paola, costumista.
In quasi cinquant’anni di carriera ha accompagnato, da protagonista, il passaggio del miglior cinema italiano dalla grande tradizione del neorealismo alla altrettanto cruciale “commedia all’italiana”. Comencini è stato, con Dino Risi, Mario Monicelli ed Ettore Scola, il maestro di un genere tipicamente nazionale, troppo spesso giudicato di semplice consumo e invece per fortuna ampiamente rivalutato e specchio fedele dell’evoluzione sociale e della creatività del nostro Paese. E ha diretto campioni della commedia come Sordi, Manfredi, Tognazzi, Mastroianni.
Grazie a un titolo come “Pane, amore e fantasia” (1953), Comencini è stato reputato il padre del “neorealismo rosa”; con “Tutti a casa” (1960) ha partecipato alla gloriosa stagione cinematografica della rivisitazione della recente storia nazionale; grazie a “Incompreso” e, tra gli altri, al televisivo “Pinocchio”, è stato considerato “il regista dei bambini”.
Tanti volti che in realtà ne racchiudono uno soltanto: quello di un “artigiano” – per usare la sua definizione – che sapeva guardare la realtà senza mai dimenticare che il cinema ha anche la missione di stupire, di divertire e di far pensare.
Luigi Comencini era nato a Salò, in provincia di Brescia, l’8 giugno 1916. Il suo primo amore fu l’architettura, ma durante gli studi universitari divenne amico di Alberto Lattuada con cui partecipò alla rivista milanese “Corrente”, fondata nel 1938 da Ernesto Treccani. Comencini scriveva le critiche cinematografiche, un’attività che continuò anche nell’immediato dopoguerra dapprima nell’“Avanti!” e poi nel settimanale “Il Tempo”. Una sapienza di scrittura che gli ha consentito di essere quasi sempre anche il soggettista e sceneggiatore dei suoi film. L’amore per il cinema lo portò, assieme a Lattuada e Mario Ferrari, a promuovere il salvataggio delle pellicole di valore, fondando la Cineteca Italiana, da autentico antesignano.
Nel ’46, Comencini debuttò nella regia con un documentario, “Bambini in città”, assai apprezzato e destinato a diventare una costante nella sua produzione. In realtà, lo stesso Comencini ebbe a dire che non aveva una particolare attenzione per il mondo dell’infanzia. Però lui, da severo e un po’ burbero intellettuale lombardo, aveva trovato nella freschezza dello sguardo dei bambini un punto di vista ideale per raccontare le profonde trasformazioni sociali. Anche nel suo primo lungometraggio, “Proibito rubare” del ’48, sono protagonisti i bambini, gli scugnizzi napoletani, affiancati da un coraggioso sacerdote, interpretato da Adolfo Celi.
A quel punto, Comencini avrebbe potuto iniziare una carriera davvero artigianale, affidabile com’era sia nel dirigere film comici, come “L’imperatore di Capri” con Totò (1950), sia pellicole drammatiche, come “Persiane chiuse” (’51) e “La tratta delle bianche” (’52).
Invece arrivò la straordinaria svolta di “Pane, amore e fantasia”, subito bissata nel ’54 con “Pane, amore e gelosia”, grazie alla straripante Gina Lollobrigida, all’ineffabile Vittorio De Sica e all’impareggiabile Tina Pica che seguono alla perfezione l’intuizione del regista di raccontare la provincia italiana in maniera sorridente, ma non per questo meno incisiva di quanto avevano fatto i maestri del neorealismo.
Con “La bella di Roma” (’55) Comencini incontra il talento di Alberto Sordi, che raggiungerà il massimo cinque anni dopo, in “Tutti a casa”, un titolo diventato emblematico nel rievocare l’atteggiamento italiano dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943. Sempre con Sordi, girò nel ’62 “Il commissario” e nel ’64 “La mia signora”, per poi ritrovarlo ancora negli anni ’70 con l’ottimo “Lo scopone scientifico” (del ’72, con Bette Davis, Jospeh Cotten, Silvana Mangano e Domenico Modugno), “Quelle strane occasioni” (’76) e “L’ingorgo” (’79)
Nel frattempo, Comencini aveva diretto film alla fine degli anni ’50 commerciali come “Mariti in città” e “Mogli pericolose”, ma andava sentendo l’esigenza di cimentarsi in un’opera drammatica: dopo aver sperimentato una commistione agrodolce in “A cavallo della tigre” (’61), nel ’63 trovò l’occasione di trasporre sul grande schermo il romanzo di Carlo Cassola “La ragazza di Bube”, con Claudia Cardinale.
Nel ’67, con “Incompreso” dal romanzo di Florence Montgomery, Comencini si conferma eccellente direttore di piccoli interpreti, nonché rispettoso della pagina scritta. È il preludio al suo capolavoro televisivo, “Le avventure di Pinocchio” del ’72 che compie il miracolo di far rivivere il celebre libro di Collodi, grazie anche a una perfetta scelta del cast (la “fatina” Lollobrigida, “Geppetto” Manfredi, Franchi e Ingrassia “gatto e volpe”) e alla meravigliosa colonna sonora di Fiorenzo Carpi.
Una delicatezza nel trattare i temi dell’infanzia e dell’adolescenza che Comencini ha poi ribadito anche in “Voltati Eugenio” (’80), nei televisivi “Cuore” (’84) e “La storia” (’86) e “In un ragazzo di Calabria” (’87), con Gian Maria Volontè, Diego Abatantuono e il giovane calabrese Santo Polimeno. Fino all’ultimo, “Marcellino pane e vino”.
Non vanno dimenticati tanti altri film “nazionalpopolari” ma mai banali, come ad esempio, “Il compagno Don Camillo” (’65), “Infanzia, vocazione e prime esperienze di Giacomo Casanova, veneziano” (’69), “Mio Dio, come sono caduta in basso!” (’74). Con punte ragguardevoli come “La donna della domenica” (’75), tratto dal giallo di Fruttero e Lucentini, o anche “Il gatto” (’77).
Quando la commedia all’italiana sembrava prossima a diventare un fatto autocelebrativo, come dimostrato da film a episodi girati a metà degli anni ’70 assieme a Nanni Loy e Luigi Magni (“Basta che non si sappia in giro”, “Quelle strane occasioni”, “Signore e signori, buonanotte”), Comencini aveva cominciato a farsi un po’ da parte. Ma sempre alla ricerca di nuovi spunti originali, come il bizzarro “Cercasi Gesù” (’82), con Beppe Grillo, o “Buon Natale, buon anno” (’89). Proprio quest’ultimo film, con Michel Serrault e Virna Lisi, va forse considerato come il vero congedo di un sublime cineasta: “il regista dei bambini” aveva saputo guardare con altrettanta attenzione al mondo della terza età, anticipando ancora una volta l’evoluzione della società italiana con acuta lungimiranza.

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