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20 febbraio 2007
American dream con tocco neorealistico - Muccino goes to Hollywood

di Franco Cicero


«Tratto da una storia vera» è un sigillo con cui le produzioni di Hollywood spesso ritengono di mettersi il cuore in pace. In effetti, se non si sapesse che quando narrato da «La ricerca della felicità» è (più o meno) realmente accaduto, sembrerebbe di assistere a un'ennesima copia moderna di quei film sull'«America dream» che riecheggiano Frank Capra senza averne la carica favolistica. Invece è più che consolatorio sapere che esiste davvero il signor Chris Gardner che nel 1981, quando è ambientato il film, in piena era reaganiana, viveva a San Francisco pieno di speranze ma anche alle soglie della povertà.

Il suo lavoro, infatti, è più che precario: venditore di apparecchiature per medici ortopedici. E non va affatto bene, con riflessi negativi sul rapporto con la stressantissima moglie. Il vero orgoglio di Chris Gardner è il suo bambino, più che sufficiente a dargli una speciale forza di volontà e l'intuizione di voler diventare agente di Borsa. Una carriera difficile, molto selettiva, che Chris deve affrontare ormai ridotto sul lastrico, costretto col suo figlioletto a contendersi un letto nel dormitorio o, peggio, ad arrangiarsi per la notte in un bagno pubblico.

Per fortuna, lo dimostra la vita successiva di Gardner, talvolta la determinazione è vincente. Tuttavia, come ben annunciato dal titolo, nei momenti cruciali della vita non conta la felicità in sé, ma – appunto – la ricerca della felicità, come solennemente sottoscritto da Thomas Jefferson nella dichiarazione d'indipendenza americana.

Questa storia esemplare è stata sceneggiata senza guizzi da Steven Conrad, che già l'anno scorso aveva scritto un film sugli improvvisi cambiamenti nella vita di un uomo, «The weather man» con Nicolas Cage. E il risultato sarebbe stato sostanzialmente uguale, cioè di confezione professionale, se la Columbia non avesse deciso di puntare su Gabriele Muccino. Così il quarantenne regista romano, caso assai raro tra i nostri autori, si è ritrovato a Hollywood e ha saputo portare un tocco della visione europea delle cose. A partire dal nostro glorioso neorealismo, citato in maniera trasparente con evidenti riferimenti soprattutto a «Ladri di biciclette» di Vittorio De Sica.

Certo, nell'ambito di una produzione hollywoodiana ferreamente strutturata, il regista dell'«Ultimo bacio» e «Ricordati di me» non ha potuto agire del tutto come a casa propria. Ma si è ben ritrovato nei movimenti della cinepresa (la fotografia è di Phedon Papamichael, il montaggio di Hughes Winborne, Oscar per «Crash») e ha saputo sottolineare certi spunti già sperimentati nella sua produzione, come le affannate corse del protagonista, la perdita delle certezze, il rinnovato senso di responsabilità e in particolare il contrasto coniugale, ben reso nella sequenza della lite di Chris con la moglie (la brava Thandie Newton), ricorrendo all'enfasi musicale di Andrea Guerra e alla corretta ricostruzione d'epoca dello scenografo J. Michael Riva e della costumista Sharen Davis. Tante altre cose, invece, restano sullo sfondo, come ad esempio la qualità professionale di Chris, affidata soltanto ai momenti in cui dimostra di saper completare il «cubo di Rubik» e di saper aggiustare il macchinario che deve vendere.

In ogni caso, a far sorvolare su eventuali incongruità del copione ci pensa l'interpretazione di Will Smith, che è tornato a conquistare le nomination come miglior attore al Golden Globe e all'Oscar cinque anni dopo «Alì» di Michael Mann. Giunto a ridosso della quarantina, Will Smith, reduce dal ruolo brillante in «Hitch» dell'anno scorso, appare proprio deciso a consolidarsi come attore drammatico. Ne ha tutte le capacità e in più stavolta si fa apprezzare per la sensibilità con cui duetta col suo reale figlio Jaden, di otto anni, senza carinerie ma con spontaneo affetto.

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