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26 febbraio 2007
Dopo due edizioni romane, i Nastri tornano a Taormina

di Sabina Prestipino

Saranno consegnati la sera di sabato 23 giugno al Teatro Antico di Taormina. I nastri d'Argento 2007, dopo due edizioni romane, ritornano quindi nel luogo dove hanno vissuto una lunga stagione memorabile.
"Il premio dei giornalisti cinematografici chiuderà infatti l'appuntamento che Taormina Arte dedica al cinema, offrendo, non solo ai film premiati ma a tutto il cinema italiano, un'occasione strategica per tentare ancora una volta quel prolungamento della stagione con il quale l'industria potrebbe accendere gli schermi anche d'estate" si legge in una nota diffusa dal Sindacato Nazionale Giornalisti Cinematografici Italiani, presieduto da Laura Delli Colli.

Il ritorno nella località turistica siciliana dei Nastri coincide anche con una sorta di "new deal" del festival di Taormina, la cui direzione artistica quest'anno è stata affidata a Deborah Young, critica di "Variety". E non è un caso: in effetti che tra Laura Delli Colli e Felice Laudadio, il precedente direttore artistico della rassegna taorminese, non corresse buon sangue non è mai stato un mistero. Da qui la decisione del direttivo del SNGCI nel 2005 di ritirarsi a Taormina, per tenere la serata di premiazione a Roma, dove peraltro ha sede il Sindacato dei Giornalisti Cinematografici.
Per quanto affascinante sia la capitale, tuttavia Roma non ha mai offerto una cornice di pari appeal a quella unica del Teatro Antico di Taormina.

Per la formazione delle candidature ai Nastri d’argento saranno presi in esame i film usciti durante tutto il 2006 e fino al 31 marzo 2007.
Sabato 14 aprile è prevista a Roma la presentazione ufficiale delle "cinquine" e all'inizio di giugno l'annuncio dei vincitori che il 23 giugno riceveranno i Nastri d’argento a Taormina.

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25 febbraio 2007
Oscar al countdown

di Franco Cicero

L’eterno perdente Martin Scorsese con “The Departed” contro il rampante messicano Alejandro Gonzalez Iñarritu di “Babel”: sarà questo il duello di questa notte degli Oscar, con il glorioso Clint Eastwood (“Letters from Iwo Jima”) e il britannico Stephen Frears (“The Queen”) pronti a tentare il colpo vincente. Previsioni rispettate, ma con più di una sorpresa, tra i nominati alla 79. cerimonia degli Oscar che si svolge il 25 febbraio a Los Angeles.
L’annuncio ufficiale delle candidature principali è toccato a fine gennaio ad un’emozionatissima Salma Hayek, messicana purosangue che sfiorò l’Oscar come attrice per “Frida”, davvero esaltata nel poter snocciolare un numero record di candidature per la cinematografia del suo Paese. E’ il Messico, infatti, il trionfatore delle nomination, grazie ai registi Iñarritu (in corsa per ben sette statuette con il suo intrigante “Babel”), Guillermo Del Toro (sei candidature per l’affascinante “Il labirinto del fauno”, tra cui quella a miglior film straniero) e Alfonso Cuarón (tre per “I figli degli uomini”). E da buona latina, Salma Hayek ha esultato anche annunciando l’inserimento nella cinquina delle migliori attrici della spagnola Penelope Cruz per “Volver”.

Ma, prima grande sorpresa, il film di Pedro Almodovar non risulta tra le pellicole straniere, dove invece spicca, oltre al “Labirinto del fauno”, “Water” di produzione canadese ma con la regia dell’indiana Deepa Mehta, lungamente applaudita nel giugno scorso al Taormina FilmFest. Si sapeva già, in questa categoria, dell’esclusione di “Nuovomondo” di Crialese; però l’Italia può festeggiare la presenza della fantastica costumista Milena Canonero, già nominata altre sette volte e vincitrice di due Oscar (per “Barry Lyndon” e “Momenti di gloria”), stavolta in lizza per il controverso “Marie Antoinette” di Sofia Coppola, e la nomination congiunta degli ottimi truccatori Aldo Signoretti (già nominato per “Moulin Rouge”) e Vittorio Sodano, artefici del make-up dell’altrettanto controverso “Apocalypto” di Mel Gibson. Oltre, naturalmente, alla festa speciale per Ennio Morricone.
Tornando alle categorie principali, il semplice dato numerico indica che il primato delle nomination dell’anno, otto, tocca al film musicale “Dreamgirls” di Bill Condon. Ma è solo un’illusione: tre, infatti, sono candidature nella medesima categoria, quella della migliore canzone originale, e quindi si elideranno a vicenda. “Dreamgirls” ha poi Eddie Murphy e Jennifer Hudson come non protagonisti e altre tre indicazioni strettamente tecniche. Insomma, non concorre a statuette “pesanti”.
Invece potrebbe finalmente essere la volta del sospirato Oscar alla regia di Martin Scorsese. Ma il regista italoamericano è ormai abituato a perdere, come avvenne due anni fa con “The Aviator” proprio contro Clint Eastwood che allora sfoggiava “Million Dollar Baby” e adesso si gode quattro nomination per “Letters from Iwo Jima” (tra cui film e regia), più due tecniche per “Flags of our father”. Per Scorsese, sulla carta, i presagi non sono dei migliori, a conferma del trattamento ostico da sempre riservatogli dai votanti dell’Academy. Infatti “The Departed” corre con appena cinque nomination, pur pesantissime: film, regia, montaggio, sceneggiatura e attore non protagonista che però non è, altra sorpresa, Jack Nicholson, bensì il più giovane Mark Wahlberg. Né per “The Departed” è candidato Leonardo Di Caprio tra i protagonisti, che però può aspirare per la terza volta alla conquista della statuetta con “Blood Diamond”, altro film con cinque nomination. Ma a sbarragli la strada – come avvenuto ai Golden Globe – c’è lo straordinario Forest Whitaker protagonista dell’”Ultimo re di Scozia”. E tra i cinque attori principali, con anche Peter O’Toole (“Venus”) e Ryan Gosling (“Half Nelson”), fa la sua bella figura Will Smith per “La ricerca della felicità” del nostro Gabriele Muccino.
Assai prestigiosa anche la cinquina delle attrici protagoniste, ma qui l’Oscar sembra scontato che andrà ad Helen Mirren, strepitosa interprete di “The Queen”, il film di Frears che grazie a lei può vantare sei prestigiose nomination. La Mirren nei panni di Elisabetta II ha finora vinto tutti i premi dell’anno. A tentare di contrastarla, oltre alla Cruz, ci sono Kate Winslet (che contribuisce alle tre nomination di “Little children”), Judi Dench (che accompagna le quattro candidature di “Diario di uno scandalo”, tra cui la non protagonista Cate Blanchett) e la sempre smagliante Meryl Streep che con “Il diavolo veste Prada” tocca il record di 14 nomination (con due vittorie), l’unica che può battere la Mirren.
Infine, tra le note positive va salutata la inaspettata performance del godibile “Little Miss Sunshine”, che piazza quattro segnalazioni: film, sceneggiatura, il non protagonista Alan Arkin e la giovanissima non protagonista Abigail Breslin ma purtroppo non la regia di Jonathan Dayton e Valerie Faris. Bene anche l’inglese Paul Greengrass che si inserisce tra i cinque migliori registi per “United 93” (ma non la spunta tra i migliori film). E bene, tra i cartoni animati, per “Cars” che dovrà vedersela con “Happy Feet” e “Monster House”. Delusione invece per il comico “Borat” (solo la sceneggiatura), l’ambizioso “The prestige” (scenografia e fotografia), “Black Dahlia” (solo la fotografia) e “I pirati dei Caraibi” che ha sì quattro nomination però prettamente tecniche.
A conti fatti, tanti film in lizza ma nessuno con un numero esorbitante di nomination. E’ la conferma che nel 2006 non c’è stata una pellicola in grado di mettere d’accordo tutti e dunque i giochi sono assai aperti.
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20 febbraio 2007
American dream con tocco neorealistico - Muccino goes to Hollywood

di Franco Cicero


«Tratto da una storia vera» è un sigillo con cui le produzioni di Hollywood spesso ritengono di mettersi il cuore in pace. In effetti, se non si sapesse che quando narrato da «La ricerca della felicità» è (più o meno) realmente accaduto, sembrerebbe di assistere a un'ennesima copia moderna di quei film sull'«America dream» che riecheggiano Frank Capra senza averne la carica favolistica. Invece è più che consolatorio sapere che esiste davvero il signor Chris Gardner che nel 1981, quando è ambientato il film, in piena era reaganiana, viveva a San Francisco pieno di speranze ma anche alle soglie della povertà.

Il suo lavoro, infatti, è più che precario: venditore di apparecchiature per medici ortopedici. E non va affatto bene, con riflessi negativi sul rapporto con la stressantissima moglie. Il vero orgoglio di Chris Gardner è il suo bambino, più che sufficiente a dargli una speciale forza di volontà e l'intuizione di voler diventare agente di Borsa. Una carriera difficile, molto selettiva, che Chris deve affrontare ormai ridotto sul lastrico, costretto col suo figlioletto a contendersi un letto nel dormitorio o, peggio, ad arrangiarsi per la notte in un bagno pubblico.

Per fortuna, lo dimostra la vita successiva di Gardner, talvolta la determinazione è vincente. Tuttavia, come ben annunciato dal titolo, nei momenti cruciali della vita non conta la felicità in sé, ma – appunto – la ricerca della felicità, come solennemente sottoscritto da Thomas Jefferson nella dichiarazione d'indipendenza americana.

Questa storia esemplare è stata sceneggiata senza guizzi da Steven Conrad, che già l'anno scorso aveva scritto un film sugli improvvisi cambiamenti nella vita di un uomo, «The weather man» con Nicolas Cage. E il risultato sarebbe stato sostanzialmente uguale, cioè di confezione professionale, se la Columbia non avesse deciso di puntare su Gabriele Muccino. Così il quarantenne regista romano, caso assai raro tra i nostri autori, si è ritrovato a Hollywood e ha saputo portare un tocco della visione europea delle cose. A partire dal nostro glorioso neorealismo, citato in maniera trasparente con evidenti riferimenti soprattutto a «Ladri di biciclette» di Vittorio De Sica.

Certo, nell'ambito di una produzione hollywoodiana ferreamente strutturata, il regista dell'«Ultimo bacio» e «Ricordati di me» non ha potuto agire del tutto come a casa propria. Ma si è ben ritrovato nei movimenti della cinepresa (la fotografia è di Phedon Papamichael, il montaggio di Hughes Winborne, Oscar per «Crash») e ha saputo sottolineare certi spunti già sperimentati nella sua produzione, come le affannate corse del protagonista, la perdita delle certezze, il rinnovato senso di responsabilità e in particolare il contrasto coniugale, ben reso nella sequenza della lite di Chris con la moglie (la brava Thandie Newton), ricorrendo all'enfasi musicale di Andrea Guerra e alla corretta ricostruzione d'epoca dello scenografo J. Michael Riva e della costumista Sharen Davis. Tante altre cose, invece, restano sullo sfondo, come ad esempio la qualità professionale di Chris, affidata soltanto ai momenti in cui dimostra di saper completare il «cubo di Rubik» e di saper aggiustare il macchinario che deve vendere.

In ogni caso, a far sorvolare su eventuali incongruità del copione ci pensa l'interpretazione di Will Smith, che è tornato a conquistare le nomination come miglior attore al Golden Globe e all'Oscar cinque anni dopo «Alì» di Michael Mann. Giunto a ridosso della quarantina, Will Smith, reduce dal ruolo brillante in «Hitch» dell'anno scorso, appare proprio deciso a consolidarsi come attore drammatico. Ne ha tutte le capacità e in più stavolta si fa apprezzare per la sensibilità con cui duetta col suo reale figlio Jaden, di otto anni, senza carinerie ma con spontaneo affetto.

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04 febbraio 2007
Piccole manie dei cinefili all’ultimo stadio


di Sabina Prestipino

Se custodite gelosamente il vostro sapere cinefilo quasi fosse una cultura esoterica, allora ci sono buone possibilità, che siate quegli snob che campeggiano nel titolo del volume. Se poi vi piacciono registi come Peter Greenaway – e ahimè su quest’ultimo punto mi devo costituire – il ritratto impietoso che fanno Kemp e Levi è proprio il vostro.

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Piccolo breviario dei tic e delle manie dei cinefili all’ultimo stadio. E’ quanto propone Sellerio con “Dizionario Snob del cinema” di David Kemp e Lawrence Levi.
Se custodite gelosamente il vostro sapere cinefilo quasi fosse una cultura esoterica, allora ci sono buone possibilità, che siate quegli snob che campeggiano nel titolo del volume. Se poi vi piacciono registi come Peter Greenaway – e ahimè su quest’ultimo punto mi devo costituire – il ritratto impietoso che fanno Kemp e Levi è proprio il vostro.
Il corrispettivo buono dello snob cinefilo è il “patito di cinema”, quello che i due autori definiscono l’infaticabile entusiasta alla Scorsese che prova un piacere quasi fisico nel far conoscere ai novizi “Ladri di biciclette” e i film di Powell e Pressburger.
Al contrario il cinefilo snob è una sorta di sfigato voglioso di scrutare, commentare, riavvolgere e dissezionare ogni sequenza. Si tratta di “cervellotici che non si sanno vestire, disadattati magari con la fissazione di Douglas Sirk”. I due autori del libro sono due giornalisti americani, uno di “Vanity Fair” e l’altro del “New York Times”, e con questo volume si propongono come via di mezzo tra la curiosità intellettuale e la morbosità del cinefilo estremo. E il nobile intento sarà pienamente raggiunto, ci dicono nella prefazione, se giunto alla fine del volume, l’amante del buon cinema non sarà più intimidito dalle parole “Espressionismo tedesco” e si deciderà a noleggiare il godibilissimo “M” di Fritz Lang e contemporaneamente non sarà attanagliato dal senso di colpa per non aver mai visto un film di Peter Greenaway.
Quello della cinefilia snob è un fenomeno relativamente recente, che nasce a cavallo tra gli anni ’70 e ’80, con l’avvento delle videocassette e dei canali via cavo. Ci sono poi di veri e propri topi di videoteche che sono pure passati dall’altra parte dello schermo, diventando registi famosi. Uno per tutti? Quentin Tarantino che tra il 1985 e il 1987 era impiegato presso la Video Archives di Manatthan Beach. E prima di lui un altro cinefilo all’ultimo stadio promosso a regista è stato Peter Bogdanovich, di cui nel volumetto troverete curiosità al limite del gossip.
Attori, autori, movimenti cinematografici, Kemp e Levi hanno censito il cinema dalla A alla Z. Non mancano gli assenti illustri dal dizionario, come Fellini e Bergman. No, nessuna svista. “Verosimilmente il cinefilo snob sa un sacco di cose riguardo ai cineasti in questione – spiegano gli autori - ma di norma li sfotte senza pietà, considerandoli luoghi comuni del borghesuccio che vuol far l’acculturato”. Di contro nel Pantheon degli snob campeggia Antonioni.
Comunque, che siate snob incalliti o semplici amanti della settima arte, il libro di Kemp e Levi vi divertirà svelandovi di tanto in tanto qualche piccola curiosità che magari ignoravate sui vostri beniamini.
Un duro colpo per i cinefili snob italiani sarà apprendere che il Sundance Festival è sbeffeggiato dai loro colleghi snob d’oltreoceano, che considerano la kermesse diretta da Robert Redford da tempo asservita al potere di Hollywood. Altro che il santuario del cinema indipendente tanto mitizzato nella vecchia Europa.

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03 febbraio 2007
Il trucco c'è, ma... The prestige

di Franco Cicero

Diretto da Christopher Nolan. Interpretato da Hugh Jackman, Christian Bale, Michael Caine, Scarlett Johansson, David Bowie, Piper Perabo. Drammatico. Usa/Gran Bretagna.

La magia, il regno dell’illusionismo. Il trucco c’è ma non si vede. Anzi, non si deve vedere. È qui che si misura la bravura degli illusionisti. È un mondo impalpabile, basato sulla leggerezza e l’abilità, tutto predisposto per stupire il pubblico, per strappargli un applauso.
Ma dietro le quinte c’è un lavoro immenso, fatto di estenuanti allenamenti, ma anche di congegni e macchinazioni che l’occhio umano non deve cogliere per garantire il successo del numero di prestigio.
Sono queste le armi usate nel duello a distanza, che dura tutta una vita, tra due illusionisti nell’Inghilterra di fine Ottocento: Robert Angier e Alfred Borden. Il primo è aristocratico nei modi e suadente nel rapporto con gli spettatori; l’altro è rude, però dotato di maggior talento e animato dalla brama di rischiare esercizi sempre più arditi.

Erano amici, un tempo. Ma un tragico incidente li divide per sempre: Borden causa involontariamente – forse – la morte della moglie di Angier. Potrebbe sembrare l’inizio della ricerca di una vendetta a lungo temine, però non è soltanto questo: c’è, in più, la rivalità che li contrappone. Angier è più amato dal pubblico, ma si rode perché nemmeno lui riesce a svelare il trucco usato da Borden in una sensazionale esibizione.
Le regole dell’illusionismo sono chiare: la presentazione del numero, la svolta, cioè il primo colpo di scena che lascia di stucco gli spettatori e quindi l’apoteosi, ovvero il prestigio, la conclusione eclatante. Il meno fantasioso Angier è pronto a tutto pur di carpire i segreti dell’avversario: fa ricorso anche alla scienza, il nuovo totem dell’epoca positivista. Ma Borden sembra ancora inarrivabile. Il trucco, ancora una volta, c’è.
Abile costruttore di atmosfere “noir” e inquietanti, Christoper Nolan in pochi anni e con cinque film all’attivo è già da molti considerato un autore di culto, in particolare per la sua seconda opera, “Memento”. Trentaseienne, inglese di nascita e formazione ma a proprio agio col cinema americano, Nolan si è voluto cimentare per la prima volta nell’ambientazione d’epoca e nella sua Inghilterra, dopo le esperienze negli Usa con “Insomnia” e con il kolossal “Batman Begins”.
Ha tratto la sceneggiatura di “The Prestige”, coadiuvato dal fratello minore Jonathan, dal romanzo omonimo di Christopher Priest, che certamente offre tanti temi cari alla poetica “dark” di Nolan: la vendetta, l’antagonismo, soprattutto la questione del “doppio” di quell’altro da sé in cui ci si può specchiare ma che non si può comprendere fino in fondo. Sullo sfondo emerge evidente la metafora dello stesso mondo dello spettacolo, del cinema anzitutto, fabbrica di magia, trionfo contemporaneo dell’illusionismo.

Nolan è assai accurato nella presentazione e nel dosaggio dei colpi di scena. Ama circondarsi di tecnici competenti con cui ha già lavorato, come il rimarchevole fotografo Wally Pfister, il montatore Lee Smith, lo scenografo Nathan Crowley, il musicista David Julyan, cui si aggiunge la costumista Joan Bergin. Il risultato è importante, pur quando sembra prevalente l’elaborazione dell’impianto complessivo. Anche agli attori viene chiesto di mettersi al servizio del “prestigio”.
Nessun divismo, quindi, da parte dei due egregi protagonisti Hugh Jackman (Angier) e Christian Bale (Borden), quest’ultimo in piena sintonia con Nolan da “Batman Begins”.
Né da parte di Scarlett Johansson, singolarmente di nuovo in un film sulla magia dopo “Scoop” di Woody Allen. Tra i comprimari eccellenti, Michael Caine incarna da par suo un ruolo affabulatorio, mentre David Bowie veste con compiacimento i panni di un personaggio realmente esistito, l’eccentrico scienziato Nikola Tesla storicamente avversato dal più pragmatico Thomas Alva Edison: dalla rivalità filmica delle illusioni a quella concreta delle invenzioni.


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