:::Benvenuti nella depandance di ottoemezzo.com::: testata giornalistica dedicata al cinema. Spizzichi, smozzichi e ritagli di cinema. O dell'arte di perdere tempo scrivendo e leggendo di una grande passione.

23 aprile 2007
"Salvador" per non dimenticare mai

di Marzia Apice

E’ difficile immaginare un clima di terrore e barbarie in un paese occidentale e quindi “civile” come la Spagna, oggi portavoce d’importanti campagne a favore dei diritti delle minoranze ed emblema di libertà e emancipazione.
Eppure, non molti anni fa, precisamente il 2 marzo del 1974, in questo stesso paese venne giustiziato un ragazzo di 25 anni, che, dopo una condanna a morte per motivi politici, fu ucciso mediante la garrota, una delle più atroci e disumane torture utilizzata già ai tempi dell’Inquisizione.
Quegli anni in Spagna rappresentarono gli ultimi sprazzi del regime franchista, tristemente noto per aver messo in ginocchio e umiliato un intero popolo, facendolo vivere nella paura e nella totale assenza di diritti civili e libertà. Il 2 marzo del 1974 fu la data dell’ultima condanna capitale in Spagna e quel ragazzo, Salvador Puig Antich, militante del Movimiento Ibèrico de Liberaciòn, da quel giorno fu consegnato alla storia e alla memoria del popolo spagnolo.
“Salvador-26 anni contro” è un film duro, appassionato, triste ma pieno di speranza. La pellicola racconta la storia dell’omonimo e sfortunato protagonista, che, arruolatosi quasi per gioco nel MIL, all’inizio sembra dividersi tra le ragazze da corteggiare e le azioni provocatoriamente dimostrative. Poi, forse senza troppa consapevolezza, passa assieme ai suoi compagni alla guerriglia attiva accanto ai militanti francesi. Cominciano allora le rapine, e arrivano anche le armi e il pericolo a stravolgere quello che sembrava essere un gioco da ragazzi. Inesorabilmente, tutto cambia: aumenta la coscienza politica e con essa la violenza. Scorre il sangue per strada: è il sangue dei ragazzi, ma mescolato a quello dei poliziotti.
Una guerra tra poveri disperati che non cambia nulla. L’agguato della polizia pone fine alla battaglia di Salvador, che da collettiva, diventa, da questo momento in avanti, una lotta personale.
Ma non finisce qui: l’ETA il 20 dicembre del ’73 uccide l’Ammiraglio Carrero Blanco e Salvador diviene un vero e proprio capro espiatorio. Ora il giovane è costretto a lottare non solo contro le istituzioni, ma anche contro una tragica fatalità. E contro un destino che lo vuole morto, ingiustamente, follemente, Salvador perderà.
Questo film, per la regia di Manuel Huerga, non è soltanto il racconto dei fatti che hanno portato alla condanna a morte di Salvador, ma anche la storia di tutto quello che la sua famiglia, il suo avvocato, i suoi amici hanno fatto per tentare di salvarlo dalla condanna.
“Salvador-26 anni contro” è sì la cronaca di un disperato tentativo per evitare l’atroce esecuzione di un giovane di 25 anni, ma è anche il racconto di un universo di sentimenti, speranze, passioni, sofferenze fisiche e mali dell’animo. Ed è l’affresco di un’epoca buia che ha segnato la vita di tante famiglie in modo irrimediabile.
Al termine della pellicola un’inquadratura struggente: dopo il funerale di Salvador, tanti petali di rose rosse solcano il terreno bagnato dalla pioggia. Sono lacrime che lavano una terra bagnata da troppo sangue.
Per non dimenticare. Mai.

dal 27 aprile nei cinema

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22 aprile 2007
"Le vite degli altri", snobbato dai festival arriva agli Oscar

di Franco Cicero

La raggelante “normalità” di un sistema dittatoriale è resa alla perfezione nel severo e calibrato film d’esordio di Florian Henckel von Donnersmarck, “Le vite degli altri”, che ha il coraggio di affrontare un doloroso capitolo della recente storia tedesca. La sceneggiatura, meticolosamente scritta dallo stesso regista, descrive infatti con pochi tocchi di impressionate precisione la grigia esistenza nella Germania Est, la Ddr, all’epoca del blocco sovietico.
Il grigio era il colore dominante degli edifici di Berlino Est e delle sue strade attraversate dalle “Trabant” (le utilitarie “comuniste”) o da qualche auto di grossa cilindrata dei burocrati del partito. Grigi, in prevalenza, anche gli abiti degli esponenti della nomenklatura dello Stato satellite più fedele all’Unione Sovietica, fino a pochi istanti prima della caduta del Muro, nel novembre del 1989.
La vicenda narrata nel film si svolge nell’84, ma non si scorge alcun segnale che possa far presagire che appena cinque anni dopo si sarebbe potuta avviare la riunificazione della Germania. Merito, si fa per dire, della capillare e asfissiante azione della “Stasi”, la polizia segreta della Ddr che poteva contare su centomila effettivi e in più su centinaia di migliaia di informatori. Era la sconvolgente realizzazione del “Grande fratello” di Orwell, con una sbalorditiva media nel rapporto tra “controllati” e “controllori”.
Nessuna violenza sanguinaria, come ai tempi del nazismo, bensì una insinuante ma pressoché invincibile pressione psicologica, efficacemente rappresentata all’inizio del film con la maniacale “lezione” sulle implacabili tecniche di interrogatorio degli agenti della Stasi. Il più “bravo” poliziotto, il capitano Wiesler, viene incaricato dal suo superiore di spiare il drammaturgo di maggior successo del momento, Dreymand, e la sua compagna, Christa-Maria, applaudita attrice.
In ogni dittatura, gli intellettuali vengono guardati con sospetto, anche quando sembrano fedelissimi al regime. Wiesler è quindi sottilmente compiaciuto di poter riempire di microspie la casa di Dreymand. L’agente della Stasi non si rende però conto di essere usato per motivi ben diversi dalla difesa dell’ortodossia comunista. Un influente ministro, infatti, vuole sbarazzarsi del drammaturgo per avere via libera con Christa-Maria.
Potrebbe sembrare che si crei una “simpatia” tra controllore e controllato, come nel bellissimo film di Francis Ford Coppola “La conversazione”. Qui invece il meccanismo è ulteriormente raffinato. L’impassibile Wiesler scopre di essere capace di commuoversi per una poesia di Brecht o una sonata di Beethoven: per lui è la cultura il bene supremo, al di là dell’ideologia. Ma non può rivelarlo.
Su queste intriganti basi, Florian Henckel von Donnersmarck costruisce un film asciuttissimo e coinvolgente, inspiegabilmente snobbato dai Festival maggiori e poi trionfatore agli Oscar europei (con tre premi: film, attore e sceneggiatura) e all’Oscar hollywoodiano come miglior film straniero. Il regista, 34 anni, degli intensi studi internazionali anche con Sir Richard Attenborough, è giunto al suo primo lungometraggio dopo una preparazione di molti anni, che gli consente di mostrare una maturità encomiabile per la sicurezza con cui sa dosare le accurate informazioni storiche con i meccanismi della suspense.
In un film dai caratteri fortemente teatrali, si apprezza molto la prova degli ottimi attori: Martina Gedeck è la dolente Christa-Maria, Sebastian Koch è lo sconcertato drammaturgo, Ulrich Tukur è il viscido colonnello. Su tutti, lo “spione” Ulrich Mühe, emblema dell’obbedienza ma non fino all’ottusità.

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20 aprile 2007
Comencini: regista di consumo o specchio fedele della società italiana?

di Franco Cicero

«Io non sono un artista: mi considero un buon artigiano e non è detto che il mio cinema non raggiunga per questo l’artisticità del risultato». È stato lo stesso Luigi Comencini a sintetizzare nel miglior modo possibile la sua straordinaria carriera che con 50 titoli lo ha reso tra i registi più popolari e amati d’Italia.
Da tempo costretto all’inattività da una lunga malattia – la sua ultima regia risale al 1992, il remake di “Marcellino pane e vino” – Luigi Comencini è morto nella sua casa romana, assistito dalle figlie, Cristina e Francesca, entrambe registe, e Paola, costumista.
In quasi cinquant’anni di carriera ha accompagnato, da protagonista, il passaggio del miglior cinema italiano dalla grande tradizione del neorealismo alla altrettanto cruciale “commedia all’italiana”. Comencini è stato, con Dino Risi, Mario Monicelli ed Ettore Scola, il maestro di un genere tipicamente nazionale, troppo spesso giudicato di semplice consumo e invece per fortuna ampiamente rivalutato e specchio fedele dell’evoluzione sociale e della creatività del nostro Paese. E ha diretto campioni della commedia come Sordi, Manfredi, Tognazzi, Mastroianni.
Grazie a un titolo come “Pane, amore e fantasia” (1953), Comencini è stato reputato il padre del “neorealismo rosa”; con “Tutti a casa” (1960) ha partecipato alla gloriosa stagione cinematografica della rivisitazione della recente storia nazionale; grazie a “Incompreso” e, tra gli altri, al televisivo “Pinocchio”, è stato considerato “il regista dei bambini”.
Tanti volti che in realtà ne racchiudono uno soltanto: quello di un “artigiano” – per usare la sua definizione – che sapeva guardare la realtà senza mai dimenticare che il cinema ha anche la missione di stupire, di divertire e di far pensare.
Luigi Comencini era nato a Salò, in provincia di Brescia, l’8 giugno 1916. Il suo primo amore fu l’architettura, ma durante gli studi universitari divenne amico di Alberto Lattuada con cui partecipò alla rivista milanese “Corrente”, fondata nel 1938 da Ernesto Treccani. Comencini scriveva le critiche cinematografiche, un’attività che continuò anche nell’immediato dopoguerra dapprima nell’“Avanti!” e poi nel settimanale “Il Tempo”. Una sapienza di scrittura che gli ha consentito di essere quasi sempre anche il soggettista e sceneggiatore dei suoi film. L’amore per il cinema lo portò, assieme a Lattuada e Mario Ferrari, a promuovere il salvataggio delle pellicole di valore, fondando la Cineteca Italiana, da autentico antesignano.
Nel ’46, Comencini debuttò nella regia con un documentario, “Bambini in città”, assai apprezzato e destinato a diventare una costante nella sua produzione. In realtà, lo stesso Comencini ebbe a dire che non aveva una particolare attenzione per il mondo dell’infanzia. Però lui, da severo e un po’ burbero intellettuale lombardo, aveva trovato nella freschezza dello sguardo dei bambini un punto di vista ideale per raccontare le profonde trasformazioni sociali. Anche nel suo primo lungometraggio, “Proibito rubare” del ’48, sono protagonisti i bambini, gli scugnizzi napoletani, affiancati da un coraggioso sacerdote, interpretato da Adolfo Celi.
A quel punto, Comencini avrebbe potuto iniziare una carriera davvero artigianale, affidabile com’era sia nel dirigere film comici, come “L’imperatore di Capri” con Totò (1950), sia pellicole drammatiche, come “Persiane chiuse” (’51) e “La tratta delle bianche” (’52).
Invece arrivò la straordinaria svolta di “Pane, amore e fantasia”, subito bissata nel ’54 con “Pane, amore e gelosia”, grazie alla straripante Gina Lollobrigida, all’ineffabile Vittorio De Sica e all’impareggiabile Tina Pica che seguono alla perfezione l’intuizione del regista di raccontare la provincia italiana in maniera sorridente, ma non per questo meno incisiva di quanto avevano fatto i maestri del neorealismo.
Con “La bella di Roma” (’55) Comencini incontra il talento di Alberto Sordi, che raggiungerà il massimo cinque anni dopo, in “Tutti a casa”, un titolo diventato emblematico nel rievocare l’atteggiamento italiano dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943. Sempre con Sordi, girò nel ’62 “Il commissario” e nel ’64 “La mia signora”, per poi ritrovarlo ancora negli anni ’70 con l’ottimo “Lo scopone scientifico” (del ’72, con Bette Davis, Jospeh Cotten, Silvana Mangano e Domenico Modugno), “Quelle strane occasioni” (’76) e “L’ingorgo” (’79)
Nel frattempo, Comencini aveva diretto film alla fine degli anni ’50 commerciali come “Mariti in città” e “Mogli pericolose”, ma andava sentendo l’esigenza di cimentarsi in un’opera drammatica: dopo aver sperimentato una commistione agrodolce in “A cavallo della tigre” (’61), nel ’63 trovò l’occasione di trasporre sul grande schermo il romanzo di Carlo Cassola “La ragazza di Bube”, con Claudia Cardinale.
Nel ’67, con “Incompreso” dal romanzo di Florence Montgomery, Comencini si conferma eccellente direttore di piccoli interpreti, nonché rispettoso della pagina scritta. È il preludio al suo capolavoro televisivo, “Le avventure di Pinocchio” del ’72 che compie il miracolo di far rivivere il celebre libro di Collodi, grazie anche a una perfetta scelta del cast (la “fatina” Lollobrigida, “Geppetto” Manfredi, Franchi e Ingrassia “gatto e volpe”) e alla meravigliosa colonna sonora di Fiorenzo Carpi.
Una delicatezza nel trattare i temi dell’infanzia e dell’adolescenza che Comencini ha poi ribadito anche in “Voltati Eugenio” (’80), nei televisivi “Cuore” (’84) e “La storia” (’86) e “In un ragazzo di Calabria” (’87), con Gian Maria Volontè, Diego Abatantuono e il giovane calabrese Santo Polimeno. Fino all’ultimo, “Marcellino pane e vino”.
Non vanno dimenticati tanti altri film “nazionalpopolari” ma mai banali, come ad esempio, “Il compagno Don Camillo” (’65), “Infanzia, vocazione e prime esperienze di Giacomo Casanova, veneziano” (’69), “Mio Dio, come sono caduta in basso!” (’74). Con punte ragguardevoli come “La donna della domenica” (’75), tratto dal giallo di Fruttero e Lucentini, o anche “Il gatto” (’77).
Quando la commedia all’italiana sembrava prossima a diventare un fatto autocelebrativo, come dimostrato da film a episodi girati a metà degli anni ’70 assieme a Nanni Loy e Luigi Magni (“Basta che non si sappia in giro”, “Quelle strane occasioni”, “Signore e signori, buonanotte”), Comencini aveva cominciato a farsi un po’ da parte. Ma sempre alla ricerca di nuovi spunti originali, come il bizzarro “Cercasi Gesù” (’82), con Beppe Grillo, o “Buon Natale, buon anno” (’89). Proprio quest’ultimo film, con Michel Serrault e Virna Lisi, va forse considerato come il vero congedo di un sublime cineasta: “il regista dei bambini” aveva saputo guardare con altrettanta attenzione al mondo della terza età, anticipando ancora una volta l’evoluzione della società italiana con acuta lungimiranza.

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18 aprile 2007
Nastri d'Argento: testa a testa tra Moretti e Tornatore

Con 7 candidature ciascuno, saranno “Il caimano” di Nanni Moretti e “La sconosciuta” di Giuseppe Tornatore a sfidarsi per aggiudicarsi i Nastri d’Argento 2007.
Li inseguono, con 6 nomination, “Il regista di matrimoni” di Marco Bellocchio e “Saturno contro “ di Ferzan Ozpetek.
Poi ci sono 5 candidature per “L'aria salata” di Alessandro Angelini, “La guerra di Mario” di Antonio Capuano e “L'amico di famiglia” di Paolo Sorrentino, che surclassano di poco un altro trio d’eccezione. Sono 4, infatti, le segnalazioni per “Anche libero va bene” di Kim Rossi Stuart, “In memoria di me” di Saverio Costanzo e “Nuovomondo” di Emanuele Crialese.
E i grandi vecchi del nostro cinema poi fanno i fanalini di coda questa volta: 3 candidature vanno a “Centochiodi” di Ermanno Olmi, altrettante a “La stella che non c'è” di Gianni Amelio. Così come “Maradona, la mano de Dios” di Marco Risi, “N, Io e Napoleone” di Paolo Virzì e “La terra” di Sergio Rubini hanno ricevuto 3 candidature a testa. Con 2, “A casa nostra” di Francesca Comencini, “Apnea” di Roberto Dordit, Commediasexi di Alessandro D'Alatri, Ho voglia di te di Luis Prieto, “Il mio miglior nemico” di Carlo Verdone, “La cena per farli conoscere” di Pupi Avati, “La masseria delle allodole” di Paolo e Vittorio Taviani, “Lezioni di volo” di Francesca Archibugi, e, ancora, “Uno su due” di Eugenio Cappuccio e “Viaggio segreto” di Roberto Ando'.
Dodici, infine, i film italiani presenti con almeno una candidatura nelle nomination 2007.
Sono 39 i film rappresentati nella selezione dei Nastri 2007 e oltre 100 i titoli tra i quali sono stati selezionati i candidati ai premi di quest'edizione: per l'esattezza 93 lungometraggi e 10 documentari, usciti dal 1° gennaio 2006 al 31 marzo 2007. Dei 93 film tra i quali è stata effettuata la selezione dei candidati (tra i quali anche le partecipazioni italiane a film stranieri) 73 sono usciti nel 2006 e 20 nei primi tre mesi del 2007 (33 in tutto le opere prime).
Questo è un anno all’insegna dell’innovazione per il celebre Premio del cinema italiano. Tra le novità vanno citate l'introduzione di alcuni Nastri speciali, un tributo ai personaggi dell'anno e la suddivisione, all'interno della categoria storicamente riservata al "Miglior film straniero", tra i titoli europei e i non europei.
La selezione dei candidati 2007 è stata compiuta dal Direttivo Nazionale del Sindacato, di cui fanno parte, con il presidente Laura Delli Colli, i vicepresidenti Fulvia Caprara e Franco Cicero e il segretario generale Romano Milani, e i colleghi Antonella Amendola, Adriano Amidei Migliano, Mario Di Francesco (già presidente Sngci), Maurizio Di Rienzo, Antonio D'Olivo, Baba Recherme e Teresa Marchesi. A loro è toccato il compito di coordinare la lista finale tenendo anche conto delle segnalazioni e delle opzioni più generalmente espresse dai giornalisti che dei film e dei loro autori e protagonisti hanno regolarmente scritto sulle diverse testate.

Inizia ora il referendum tra i soci del Sngci con diritto di voto sui Nastri: tutti gli iscritti, con la sola eccezione dei soci che operano nella comunicazione come uffici stampa e degli iscritti onorari (tutti gli ex giornalisti attivi, passati in qualche caso ad altri incarichi professionali) la cui attività sia oggi incompatibile con l'informazione cinematografica. Per evidenti ragioni, non votano specificamente in alcune categorie, ed è la seconda volta che accade, due illustri iscritti al Sngci come Maurizio Costanzo, padre di Saverio, e Mario Verdone, papà di Carlo.
Le operazioni di voto si concluderanno il 31 maggio. Saranno quindi annunciati nei primi giorni di giugno i nomi dei vincitori che ritireranno i Nastri sabato 23 Giugno sul palcoscenico del Teatro Antico di Taormina.
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Cinema e Lavoro: un binomio made in Terni


di Sabina Prestipino

Ha aperto i battenti ieri la V edizione del Festival CINEMA e/è LAVORO di Terni con il vincitore del Premio della regia all'ultima Mostra del Cinema di Venezia. “Daratt” di Mahamat-Saleh Haroun, che uscirà nelle sale italiane il 25 maggio distribuito dalla Lucky Red, ha inaugurato la rassegna diretta da Stefano Della Casa.
Mahamat-Saleh Haroun ha quindi tenuto a battesimo CINEMA e/è LAVORO di quest’anno. Il regista proveniente dal Ciad proprio a Terni è stato insignito del premio del Festival "per il lavoro nel cinema", che nelle passate edizioni è andato a cineasti del calibro di Ken Loach, Bertrand Tavernier, Danis Tanovic e Marco Belloccio. Il premio è stato consegnato da un autore e attore del nostro cinema, Michele Placido.
Il festival di Terni quest’anno ci farà conoscere l’opera di Haroun, con un omaggio che comprende altri due film dello stesso autore, “Bye Bye Africa” e “Sotigui Kouyatè”, due opere che propongono una riflessione, tra passato e presente, sul fare cinema ed essere attore in Africa.
La protagonista di oggi è invece Stefania Sandrelli, che assieme al regista Michael Schroeder alle 21.00 presenterà il film “Man in the Chair”. Ancora una volta il mestiere di regista e quello dell’attore sono sotto i riflettori della rassegna. Più erudito invece il pomeriggio al festival: con “Lettera ad un film mai fatto”, documentario di Giorgio Treves sul progetto di Visconti di girare un film tratto da “Alla ricerca del tempo perduto” di Proust.
Treves incontrerà il pubblico insieme al professor Alberto Beretta Anguissola, uno dei più importanti studiosi del grande scrittore francese. Ideale per chi è affascinato dall'universo viscontiano e vuole avere un assaggio, senza nessuna pretesa accademica, della narrazione proustiana e dei suoi possibili punti di contatto con quelli della narrazione cinematografica.
Per l’aperitivo il festival ritorna sul tema del lavoro con la presentazione del libro “Voice Center” di Zelda Zeta, storie, sogni, paure che si incrociano in un luogo simbolo del lavoro nell'era della comunicazione: il call center. Una commedia umana che verrà un po' raccontata e un po' messa in scena.

FOTO: Stefano della Casa, direttore del festival di Terni

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17 aprile 2007
Edmond ovvero della paura e del desiderio

di Marzia Apice

Edmond Burke è un rispettabile uomo di mezza età, con un buon lavoro, una casa, una moglie, ma soprattutto, con un’esistenza che non gli appartiene.
Un bel giorno, come appena svegliatosi da un sonno lungo cinquant’anni, si accorge che la sua vita non gli piace, anzi, non gli è mai piaciuta. Non vuole più sopportare niente, desidera prendere quello che vuole senza accontentarsi più della banalità quotidiana. Ha bisogno di dare voce al vero se stesso.
Apre quindi gli occhi sul mondo: lascia la moglie e la casa, e s’immerge nei vicoli della propria città. Durante la sua prima notte da uomo “libero” scopre cose a cui non aveva mai prestato attenzione. Sulla sua pelle conosce il mondo della prostituzione, fatto di ragazze ormai tristi e disincantate, pronte a tutto per denaro, e di protettori violenti e senza scrupoli.
Subisce un’aggressione da due loschi individui che lo derubano. Rimasto senza soldi, acquista un pugnale dopo aver impegnato un anello e si difende da una seconda aggressione.
Poi, pieno di una nuova consapevolezza e di convinzioni sconosciute fino a quel momento, ha un incontro sessuale con una giovane cameriera. Nel bel mezzo di una discussione paradossale, in modo inaspettato, scoppia una tragedia: Edmond è mosso da una profonda rabbia, un odio brutale che gli fa compiere un gesto a cui non potrà mai più riparare.
Ma, forte di una follia allucinatoria e di un nuovo delirante coraggio, crede di essere invincibile e, inesorabilmente, nel giusto. Arrestato e messo in carcere, qui comincia davvero la seconda vita di Edmond. Sarà un viaggio lungo, doloroso, autodistruttivo che lo porterà a scoprire che “quando temiamo qualcosa inconsapevolmente la desideriamo, che si tratti della morte o dei ladri” perché “dietro ogni paura si nasconde un desiderio”.
Questa è la trama di “Edmond”, il nuovo film di Stuart Gordon, tratto dall’omonima opera teatrale di David Mamet.
Progetto interessante, ma la commistione teatro-cinema non riesce appieno. Il film è lento, il ritmo va a singhiozzi.
Se non fosse per l’ottima colonna sonora e lo straordinario talento del protagonista William H. Macy, qui impegnato in una delle sue migliori interpretazioni, sarebbe difficile vederlo.

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Marco Tullio Giordana torna sul set con "Sangue Pazzo"

di Sabina Prestipino

Monica Bellucci, Luca Zingaretti e Alessio Boni: è la triade di protagonisti d'eccezione del nuovo film di Marco Tullio Giordana.
Si intitola "Sangue Pazzo" e il primo ciak ha avuto luogo oggi a Taglio di Po, in provincia di Rovigo. Basato su una sceneggiatura originale scritta nel 1985 da Marco Tullio Giordana con Leone Colonna ed Enzo Ungari, "Sangue Pazzo" narra la parabola artistica e umana di Luisa Ferida e Osvaldo Valenti, due celebri attori del cinema fascista che aderirono alla Repubblica di Salò. I due, accusati di collaborazionismo e tortura, finirono fucilati dai partigiani dopo la Liberazione.

Il film, è una coproduzione fra la BìBì Film di Angelo Barbagallo e la società francese Paradis Films, in collaborazione con Rai Cinema e Rai Fiction. Questo ambizioso progetto è reso possibile anche grazie al sostegno di Eurimages e della Film Commission Torino Piemonte. La distribuzione italiana sarà affidata a 01 Distribution, le vendite estere alla società internazionale Wild Bunch.
"Sangue pazzo" uscirà prima nelle sale cinematografiche e successivamente sarà sugli schermi televisivi.
Le riprese, previste in 13 settimane, si svolgeranno, oltre che nel Polesine, anche a Venezia, Milano, Torino e Roma.

Nel cast tecnico figurano molti dei collaboratori abituali di Giordana, come il direttore della fotografia Roberto Forza, lo scenografo Giancarlo Basili, la costumista Maria Rita Barbera, il montatore Roberto Missiroli, il fonico Fulgenzio Ceccon.

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14 aprile 2007
E’ Udine la capitale del Far East

di Sabina Prestipino

E’ sempre stato il territorio d’elezione del cinema di Hong Kong.
Ora giunto alla nona edizione, il Far East Festival allarga i suoi orizzonti. L’edizione 2007 della rassegna, che si svolge a Udine dal 20 al 28 aprile presso il Teatro Nuovo e gli Spazi del Visionario, propone un vero e proprio viaggio tra le tendenze e gli stili cinematografici dell’intera Asia.
A far la parte del leone naturalmente c’è la Cina, con i suoi trecento film prodotti solo nel 2006. Ma anche le altre cinematografie del continente asiatico sono molto ben rappresentate: dalla new wave di Patrick Tam, a cui quest’anno è dedicata la retrospettiva, alla magniloquenza dei blockbuster giapponesi, dalla stravagante e misconosciuta produzione filippina, fino alle commedie romantiche thailandesi e alle emozioni a tinte forti messe in scena dal cinema coreano.
E se fino a pochi anni fa il Far East era considerato una manifestazione di nicchia, per cinefili a caccia di rimandi e citazioni tra Hollywood e l’Estremo Oriente, oggi che la Cina e l’Asia in generale sono sempre più percepite come la nuova frontiera dell’Occidente, la rassegna udinese è proprio in tema con l’attualità e i nostri tempi. Negli anni la manifestazione è cresciuta e meriterebbe un seguito più internazionale, visto che ogni anno porta in Italia un parterre di ospiti asiatici davvero eccezionale.
Quest’anno tra le numerose star orientali, c’è molta attesa per il regista Patrick Tam. Considerato unanimemente il maestro del più celebre, in Europa, Wong Kar Wai, Tam è l’indiscusso protagonista di quella nouvelle vague che negli anni Ottanta rivoluzionò il cinema made in Hong Kong. Spirito anticonformista e provocatorio, fu Tam a lanciare nel firmamento delle star Leslie Cheung.

FOTO: Una scena di "After this our Exile" di Patrick Tam
In anteprima la nuova sigla del festival -->
http://www.youtube.com/watch?v=G1WZgNt92aY

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“Nero Bifamiliare” azzeccato esordio alla regia del leader dei Tiromancino

di Marzia Apice

Di fronte al ministro Francesco Rutelli e al sindaco di Roma Walter Veltroni si è tenuta qualche giorno fa al cinema Adriano di Roma l’attesissima presentazione di “Nero bifamiliare”, primo lungometraggio di Federico Zampaglione, leader dei Tiromancino, ora anche regista.
Presente il cast al completo: Claudia Gerini e Luca Lionello, Emilio De Marchi, Anna Marcello, Remo Remotti, Ernesto Mahieux, Cinzia Leone, Max Giusti, Yari Gugliucci, Adriano Giannini.
“Nero bifamiliare” è una commedia nera, divertente e graffiante, cinica e ironica, ben scritta dal duo Zampaglione-Gentile e supportata da un bel gruppo di attori di talento che hanno fatto decisamente la differenza.
Il film narra la storia di Marina (Gerini) e Vittorio (Lionello), una giovane coppia di sposi che decide di acquistare una villetta in un tranquillo comprensorio immerso nel verde. Ma, ben presto, ci penseranno gli eccentrici vicini di casa a turbare e, poi, a stravolgere completamente la loro tranquilla quotidianità piccolo borghese.
Riflessioni amare sulle ipocrisie e i pregiudizi di una vita cosiddetta “normale”, battute fulminanti e gustose gag, immagini sensuali (da manuale lo striptease della Gerini sulle note di una canzone cantata da lei stessa) e sequenze oniriche: questa è la ricetta vincente di “Nero bifamiliare”. Ma il film nasconde anche altro. Ci sono diverse tematiche scottanti e di grande attualità che il film affronta con leggerezza, ma in modo incisivo, come la paura del diverso, la proverbiale arte d’arrangiarsi tipicamente italiana, la cialtroneria.
Bella la musica (curata ovviamente dai Tiromancino) e piacevole il film: davvero un esordio interessante e proficuo per il giovane cantante romano nell’inedita veste di regista, impegnato in “Nero bifamiliare” anche nel delicato ruolo di dirigere la propria compagna(nonché musa ispiratrice) Claudia Gerini. Coppia vincente, dunque, nella vita e nel lavoro.
Peccato per la serata: un’organizzazione pessima ha fatto quasi rimpiangere di non essere rimasti a casa.

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Quello che gli uomini non dicono

di Marzia Apice

Sette personaggi, sette vite che si intrecciano, sette uomini che combattono una lotta contro se stessi: da qui parte e qui ritorna “Quello che gli uomini non dicono”, il nuovo film di Nicole Garcia, in una struttura circolare che sembra immobile, ma che in realtà vuole sradicare sentimenti, pensieri, coscienze.
In soli tre giorni questi uomini, diversi per età, classe sociale e carattere, incontrandosi si scontrano mettendo in moto un meccanismo di faticosa ricerca di una consapevolezza perduta (o mai cercata) di se stessi.
Su tutti lo sguardo di un bambino che, forse proprio per la sua purezza, riesce a fare luce sulla cecità dei più grandi e sulle loro illusioni, nonostante la paura di sbagliare.
Stavolta, quindi, protagonista assoluto è l’universo maschile, spesso considerato molto più semplice, più lineare e meno problematico di quello femminile. Il film ci dimostra che anche gli uomini sono in grado di complicarsi la vita, soprattutto quando per paura non risolvono alcuni nodi della coscienza. Ma tanto si sa (e questo le donne lo sanno bene!), la coscienza torna a bussare e non lascia scampo, invitandoci a mettere a nudo le nostre debolezze.
Sullo sfondo di una cittadina di provincia anche alcune donne: il loro è un ruolo di testimoni, consigliere, mentori, distanti eppure così vicine da poter indicare la giusta strada a questi uomini smarriti nei meandri dei propri cuori.
Buone le premesse, ma esile il risultato. Peccato, perché alla base del film c’è una bella idea, ma la realizzazione non convince, nonostante si faccia il possibile per spingere lo spettatore all’immedesimazione con i personaggi, per accorciare la distanza tra le nostre vite e lo schermo. Sebbene ci sia un filo comune che muove le sette vite protagoniste, il film non è poi così unitario, né così incisivo da coinvolgere appieno.
E, a dir la verità, qualche parola in più avrebbe di certo giovato a tutti quei silenzi che non hanno “parlato” tanto quanto era nelle intenzioni degli autori.

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Agli Screenings Rai le nostre fiction da esportazione


di Sabina Prestipino


Oltre duecento buyer e broadcaster, provenienti da circa novantotto paesi, si sono incontrati dall’11 al 13 aprile 2007 al Forte Village di Santa Margherita di Pula (Cagliari).
Ad attirare a Santa Margherita i principali rappresentanti delle emettenti televisive internazionali sono stati i Rai Trade Screenings 2007, manifestazione molto apprezzata dagli operatori stranieri, che hanno potuto visionare il ricco patrimonio di fiction, cinema, documentari, archivi e format della Rai.
La tre giorni italiana si chiude con un bilancio positivo. Ancora una volta le nostre fiction si dimostrano in grado di varcare i confini nazionali.
Agli Screenings sono state presentate in anteprima assoluta alcune immagini di “Caravaggio” e “Guerra e Pace” (foto). La prima fiction è stata prodotta dalla Titania di Ida Di Benedetto con Rai Fiction, in coproduzione con Francia, Spagna e Germania. Si tratta di un prodotto di altissimo livello per la cura dei dettagli: la fotografia è stata curata dal maestro premio Oscar Vittorio Storaro, mentre la colonna sonora è firmata da Luis Bachalov.
Alessio Boni ha ricoperto il ruolo che quarant'anni fa fu di Gian Maria Volontè. La fiction ripercorre la storia del grande artista litigioso e violento, con una vita fatta di luci, ombre, ma anche avventurosa ed errabonda. Accanto ad Alessio Boni c'è Elena Sofia Ricci nella parte della marchesa Costanza Colonna e Jordi Mollà che interpreta il Cardinal Del Monte.
Questa nuova edizione di “Caravaggio” ha avuto un buon riscontro sul mercato internazionale: buyers di 39 Paesi hanno chiesto di visionare il film intero e il Giappone ha già acquisito i diritti.
Coprodotto da Rai Fiction e Lux Vide, “Guerra e Pace” è stato diretto da Robert Dornhelm, nomination ai Golden Globe con 'Requiem fur Dominik' (1990) come miglior film straniero e, tra l'altro, regista di 'Into the West' (2005) prodotto da Steven Spielberg, e dei 'Dieci comandamenti'.
La sceneggiatura è firmata da Enrico Medioli ('C'era una volta in America' di Sergio Leone) e Lorenzo Favella. Nel cast di nuovo Alessio Boni nei panni del principe Andrej Bolkonskij che, in polemica con la fatua società pietroburghese, affronta l'esperienza della guerra, la prigionia, l'infelice amore per Natascia, raggiungendo con la morte la purificazione spirituale nella fede cristiana. La giovane attrice francese Clemence Poesy (“Harry Potter e il calice di fuoco”) si è aggiudicata il ruolo di Natascia Rostova. Andrea Giordana è il Conte Rostov, Violante Placido la Principessa Elena.

FOTO: Una scena di "Guerra e pace"
per gentile concessione di Rai Trade

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13 aprile 2007
“Gli Innocenti”: ultimo atto di Per Fly sulla società danese

di Marzia Apice

Dopo “La panchina” e “L’eredità”, Per Fly presenta “Gli innocenti”, l’ultimo capitolo della trilogia che lo ha visto impegnato negli ultimi anni a descrivere la società danese attraverso le differenti classi sociali. Questo film, oltre a confermare il noto talento dell’autore, fornisce l’ennesima prova della validità della scuola sviluppatasi in Danimarca che da diverso tempo produce pellicole interessanti e mai banali, profondamente radicate nelle problematiche contemporanee.
La consapevolezza di se stessi, il senso di colpa, la complessità della verità e, di contro, l’estrema facilità con cui si può cadere nella menzogna sono tutti temi cardine del film.
Carsten è un uomo di mezza età, docente di scienze sociali, che ha una relazione extraconiugale con Pil, sua allieva all’università. Fin qui tutto banale, se non fosse che la ragazza traduce la passione e l’impegno politico che Carsten le ha insegnato in una vera e propria attività terroristica. Una notte, durante un’azione di boicottaggio contro un’industria di armi,Pil uccide un poliziotto. Scoppia una bufera nella vita di Carsten: la moglie Nina e il figlio gli volteranno le spalle. L’uomo sceglie di stare accanto a Pil, che nel frattempo è stata rinchiusa in carcere, consigliandole di non dire la verità, e quindi di dichiararsi innocente, costi quel che costi. Una volta prosciolta, Carsten e Pil cominciano a vivere insieme. Ma, da quel momento in poi, i rimorsi e i rimpianti saranno implacabili.
Niente potrà più essere come prima.
Ancora una volta, Per Fly affida il ruolo del protagonista è all’intenso Jesper Christensen, mentre la parte femminile è interpretata dalla giovane Beate Bille. Accanto a loro anche Pernilla August, attrice di bergmaniana memoria.
“Gli innocenti” è un film scomodo, difficile, che chiama in causa la coscienza dello spettatore in modo diretto e deciso, con un giusto approccio ad un tema critico come il terrorismo. La classe media, di cui anche il regista fa parte, ne esce divisa a metà, imbrigliata in una crisi che la vede da un lato desiderosa di agire perché ancorata a degli ideali ormai passati e, dall’altro, incapace di fuggire dall’impasse, perché timorosa di prendersi le proprie responsabilità.
Da vedere.

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01 aprile 2007
Prima a Roma poi a Trieste, sotto i riflettori c'è Laura Morante

di Sabina Prestipino

Dopo l'omaggio tributato dal Moma di New York l'anno scorso, quest'anno Laura Morante viene celebrata in casa.
Inizia infatti martedi' 3 aprile al cinema Trevi di Roma "La musa discreta", rassegna di film dedicata all'attrice.
In estate poi, nel corso dell'ottava edizione di Maremetraggio (Trieste, 29 giugno - 7 luglio 2007) si celebra la carriera cinematografica di Laura Morante.
La retrospettiva, curata, insieme al direttore artistico del Festival Chiara Omero, dal critico Maurizio Di Rienzo, prenderà il via nella settimana precedente il festival, nelle giornate dal 23 al 28 giugno, e comprenderà la proiezione di alcuni dei più importanti lungometraggi interpretati da Laura Morante a partire dagli anni ‘80.
Si partirà da alcune pellicole d’esordio come “Colpire al cuore” di Gianni Amelio e “Bianca” di Nanni Moretti, per arrivare ai giorni nostri, in cui Laura Morante ha lavorato anche all'estero, con Vincente Aranda (“Lo sguardo dell’altro”) , ma anche diretta dal collega John Malkovich (“Danza di sangue”).
In programma ci sarà anche “Molière” di Laurent Tirard, previsto in uscita nelle sale per il 6 aprile, in cui la Morante veste i panni di Elmire, moglie del "borghese gentiluomo" Jourdain.
Ogni pellicola verrà introdotta da una breve video intervista all’ attrice, realizzata da Maurizio Di Rienzo con la collaborazione registica di Claudio Noce (Nastro d’ Argento e David di Donatello 2005 per il cortometraggio “Aria”).
Nel weekend finale del Festival (6 e 7 luglio) l'attrice sarà a Trieste per ritirare un premio alla carriera e incontrare il suo affezionato pubblico.
L'Ansa inoltre ha annunciato nei giorni scorsi che sarebbe imminente l'esordio alla regia della Morante, con ben due film di cui e' anche autrice.
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Marco Risi gioca la carta dell'agiografia

di Marzia Apice

‘O re: questo è il nome con il quale Napoli ha acclamato per tanti anni Diego Armando Maradona, il più grande e controverso calciatore di tutti i tempi.
Ma la storia di quest’uomo, divenuto per i napoletani un eroe, un santo, un dio in terra, il simbolo di un riscatto sociale ed economico reso possibile dall’unione di genialità e passione, comincia molti anni prima e dall’altra parte del mondo.
Siamo in Argentina, in una borgata alla periferia di Buenos Aires: Diego nasce in una famiglia numerosa e povera, in cui il padre si spacca la schiena tutto il giorno per cercare di dar da mangiare ai suoi figli. C’è poco tempo per ridere e scherzare, ogni giorno è una lotta per vivere dignitosamente. Ma nonostante tutto Diego ha un amore, grande, indistruttibile: il pallone. Giocare a calcio è l’unica cosa che riesce a farlo sognare, a dargli gioia, a evadere da quel mondo di degrado e miseria che lo circonda.
A forza di tirar calci al pallone, qualcuno si accorge di lui, del suo talento eccezionale. E comincia l’ascesa verso il paradiso. Sì, perché nel giro di pochi anni Diego Maradona diventa un dio, capace di far urlare di gioia milioni di persone. Arrivano denaro, fama, potere. Finalmente può sistemare la sua famiglia e godersi la sua fortuna.
Conosce Claudia, la donna della sua vita, compagna di tante battaglie. Ma, insieme a tutto questo, arriva anche l’inferno. La droga, prima di tutto. I guai fisici. La depressione. L’obesità. I tradimenti. I nemici. E principalmente, la dipendenza da quella maledetta polvere bianca che consuma mente e fisico in modo inesorabile.
“Maradona, la mano di dios”, ultimo film di Marco Risi, racconta questa storia, la parabola di un uomo pieno di contraddizioni, esuberante, eccessivo, ma anche sincero e generoso. Un uomo forte e debole allo stesso tempo, capace di veri sentimenti e grandi aberrazioni, ben interpretato dal bravo Marco Leonardi del quale non sfugge una certa somiglianza con il vero Maradona.
Marco Risi cerca di scavare all’interno del personaggio Maradona per riscoprire l’uomo Diego. Ma questo film rende omaggio al mito del calciatore più straordinario di tutti i tempi con un approccio eccessivamente benevolo nei confronti dei molti, troppi sbagli che Maradona ha fatto nel corso degli anni.
Forse non si può perdonare sempre tutto, anche ad un uomo che ha toccato con i piedi la gloria della storia.

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Il ritorno di Cappuccio con l'inedita Coppia Volo-Davoli

di Franco Cicero

Forse non è una semplice coincidenza che due film italiani, usciti a distanza ravvicinata, mettano in evidenza un timore che sembra essere alquanto diffuso: quello di perdere, inopinatamente, uno stato di benessere. Sia in “Uno su due”, infatti”, che in “Saturno contro” di Ferzan Ozpetek, i protagonisti, ancora giovani, vengono colpiti da malori improvvisi. È un segno – senza addentrarsi su percorsi sociologici – di una pressante incertezza nel futuro. Ma è anche uno strumento narrativo per far vedere ogni cosa da una nuova prospettiva e per consentire la scoperta dei veri valori della vita.
Il protagonista di “Uno su due” è un rampante avvocato genovese, Lorenzo, piuttosto spregiudicato negli affari e nei sentimenti. Orgogliosamente “single”, non intende ufficializzare il rapporto con la sua fidanzata; non nutre un’autentica amicizia nei confronti del fedele socio e non si cura di frequentare la propria sorella. Proprio alla vigilia della firma di un succulento contratto, l’avvocato sviene di colpo, in piena strada.
Si risveglia in una stanza d’ospedale. Ha avuto un problema al cervello. Quanto grave non si sa: bisogna attendere l’esito della biopsia. Purtroppo, invece, la sorte del suo vicino di letto, Giovanni, è già segnata: è lui quell’“uno su due” condannato dalle statistiche mediche. È un camionista, tutt’altro che colto o raffinato, però animato – nonostante la prognosi infausta – da una sincera vitalità. Giovanni ha un segreto: è divorziato e ha una figlia, che vive in Umbria con la madre. La vorrebbe rivedere, ma non ha il coraggio di chiamarla.
Lorenzo si consuma nella prolungata attesa dei risultati delle analisi, finché non comprende di avere una priorità, quasi più importante della propria salute: trovare la figlia di Giovanni.
L’idea del film non è nuova, ma certamente si rigenera con varianti originali. Il soggetto, premiato col Solinas nel 2001, è diventato sceneggiatura attraverso il lavoro di addirittura cinque autori (Eugenio Cappuccio, Fabio Volo, Massimo Gaudioso, Francesco Cisco e Michele Pellegrini), cosa che crea qualche farraginosità, ma assicura una serie di dialoghi molto credibili.
Il regista Cappuccio ha esordito, dieci anni fa, con lo spiritoso “Il caricatore” diretto assieme a Gaudioso e Fabio Nunziata (che stavolta cura il montaggio). Nel 2004 ha descritto la spietatezza del mondo del lavoro in “Volevo solo dormirle addosso”, che è la faccia “cattiva” di “Uno su due”, i cui pregi maggiori sono invece i momenti di altissima umanità, soprattutto nelle scene ospedaliere. Nel finale, però, ha un andamento “rattenuto” (secondo il neologismo creato nel film, fondendo trattenuto e rattrappito) che tuttavia non ne compromette l’esito ampiamente positivo, al quale danno un contributo la bella fotografia di Gian Filippo Corticelli, che svela il fascino di Genova, e le musiche di Francesco Cerasi.
A tutto tondo le prove degli attori, a partire dai pregnanti ruoli minori, con la ritrovata Agostina Belli (l’ex moglie di Giovanni), la promettente Tresy Taddei (la figlia), Pino Calabrese (il primario), Francesco Crescimone (il ricoverato siciliano) e Paola Rota (la sorella di Lorenzo); per proseguire con gli ottimi comprimari Antica Caprioli (la fidanzata di Lorenzo) e Giuseppe Battiston (il socio). Fino ad arrivare, dulcis in fundo, all’inedita coppia formata da Fabio Volo (Lorenzo) e Ninetto Davoli (Giovanni). Il trentacinquenne Fabio Volo è ormai un interprete di qualità, che dopo la parentesi umoristica di “Manuale d’amore 2”, torna, superandoli, agli stati d’animo dei film con D’Alatri (“Casomai” e “La febbre”). Il cinquantanovenne Ninetto Davoli apre una nuova fase della sua carriera, da alter ego di Pasolini a sapiente dispensatore di emozioni, e alla “Festa di Roma” ha meritatamente vinto un premio speciale.

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